Tredici JOY hasher libri serie TV Netflix

Avrei voluto scrivere concetti psicologicamente profondi riguardo “Tredici”, non la serie televisiva di cui viene chiesta a gran voce la visione obbligatoria nelle scuole, bensì del romanzo che compie dieci anni e lessi in tempi “non sospetti”.
Mi trovo col libro davanti mentre lo sfoglio per l’ennesima volta alla ricerca di uno spunto che mi faccia affermare con certezza “E’ una sciocchezza” oppure “E’ un capolavoro” e, invece, sono pervasa, oggi come dieci anni fa, da sentimenti fortemente ambivalenti nei confronti di questa storia.

E’ una sciocchezza perché, se lo si analizza con occhio cinico, si conviene che “non sussistano motivi validi per suicidarsi”; né oggi, né dieci anni fa quando ancora non i social network né il conseguente cyberbullismo avevano invaso le nostre vite, trovo accettabile “farla finita” anziché attendere pazientemente la fine della scuola per trovare rivalsa altrove, lontano da una città e una vita che non ci appartengono. L’abbiamo fatto in tanti, ragazzi e ragazze, ridicolizzati e umiliati a scuola in modi ben peggiori rispetto a quelli descritti nel romanzo, che dopo il diploma si sono realizzati nella vita professionale e personale e guardano all’adolescenza con un sorriso beffardo, come a dire “Ce l’ho fatta” e godono anche un po’ nel rivedere i “bulletti” della scuola ingrassati, invecchiati e disoccupati.

E’ un capolavoro perché indaga l’animo umano e pone l’accento sull’aspetto emotivo di una ragazza che, da come racconta di sé stessa attraverso le audiocassette con cui “colpevolizza” i propri coetanei e qualche professore per il proprio suicidio, appare estremamente fragile che, forse, avrebbe compiuto comunque quel gesto estremo, a prescindere da come sarebbero andate le cose nella sua breve vita. Chi ci da il diritto di dire a una persona lacerata nella sua parte più intima che sta soffrendo per motivi stupidi, che tutto passerà e che la vita vale la pena di essere vissuta? Questa ragazza, questa nostra compagna di classe, questa nostra collega di lavoro, questa nostra vicina di casa è talmente affossata nei propri problemi da non rendersi conto di avere davanti a sé un’alternativa, oppure ne è consapevole e sceglie la strada più breve per non affrontarli?

Al termine della lettura, ogni volta, sono in preda a una serie di domande che collimano tutte in un’unica riflessione: “l’effetto valanga” più volte nominato nella narrazione, le nostre “buone o cattive azioni” nei confronti di qualcuno, possono davvero far pendere l’ago della bilancia verso la salvezza o la fine della sua vita? Non obblighiamo nessuno a compiere un gesto estremo, eppure l’istigazione al suicidio è considerato reato penale; al contempo, la sensibilità nel cogliere segnali d’allarme, il nostro intuito è fondamentale quando guardiamo una persona e pensiamo che ci sia “qualcosa di strano” nei suoi occhi e nei suoi agiti, ma davvero possiamo essere responsabili delle scelte altrui? E’ possibile “salvare tutti”? E’ una giusta punizione vivere col senso di colpa per non esserci accorti di niente, per aver negato un sorriso a qualcuno magari proprio quel giorno in cui aveva deciso di togliersi la vita, magari proprio quel giorno in cui anche noi avevamo bisogno di aiuto, magari, magari, magari…

In definitiva, la domanda che mi lacera la mente è una: possiamo davvero cambiare le vite degli altrI?

Tea Provini

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